Il 30 gennaio 1972 un plotone di paracadutisti inglesi del primo reggimento sparò su una folla di pacifici manifestanti a Derry: furono 13 i morti e molti i feriti di quella domenica di sangue.
La manifestazione fu indetta per protestare contro la sostanziale mancanza di diritti civili, causata anche da pesantissime norme di polizia, come la reclusione preventiva senza termini temporali per il processo per chi era sospettato di essere un militante repubblicano. Ogni anno questa data viene ricordata a Derry con una marcia di commemorazione alla quale, oltre a migliaia di irlandesi, partecipano rappresentanze da varie nazioni europee e da tutto il mondo.
La strage, che viene ricordata come “Bloody Sunday”, non ha avuto colpevoli ufficiali, poiché fu premiata la tesi secondo la quale i militari avrebbero risposto al “fuoco dei dimostranti”, ma è invece assodato che questi ultimi non erano armati. Ancora una volta nella travagliata storia irlandese ci si trovò di fronte ad una distorsione della realtà, atta a nascondere le tragiche responsabilità del paese di sua maestà durante l’occupazione del nord Irlanda. Lo stesso paese che è tutt’oggi “esportatore di democrazia” alla ruota dei loro degni cugini d’oltreoceano.
La tragedia del “Bloody Sunday”, segnò un ulteriore punto di svolta nella tragica storia della questione irlandese, consegnò infatti molti giovani patrioti repubblicani ad una scelta drammatica quanto inevitabile: rispondere con le armi, come i loro Padri prima di loro, a chi, con le armi, negava loro la libertà e cercava lo sradicamento dell’identità del loro popolo.
Cinquantatré anni fa morirono 13 innocenti e non furono né le prime né le ultime vittime dell’oppressione di sua maestà a spese del popolo irlandese, un popolo fiero, che con sangue e sudore lotta da decenni per la libertà nella propria terra, per le proprie tradizioni e per la propria cultura.
Nelle Sei Contee e in tutta l’Irlanda c’è ancora chi brandisce con orgoglio il vessillo della propria identità. E’ il popolo irlandese, quello vero, quello puro, quello ribelle, che con una tenacia d’altri tempi ancora lotta per la propria terra, per la propria gente e per la propria autodeterminazione; quello che non si è scordato di chi, con il sangue, ha lottato per vedere l’isola verde una e unita, senza padroni stranieri: coloro che non hanno mai dimenticato il fulgido esempio di Bobby Sands, che dichiarò, poco prima della morte dopo 61 giorni di sciopero della fame nella prigione di Long Kesh: “Non mi è difficile morire, perché morirò per i miei amici”. (Bobby Sands).