Un patriota, un eroe, l’oppositore numero uno di Putin, uno dei maggior giornalisti d’inchiesta in Russia. Con la sua morte, l’Occidente ha suggellato il ritratto di Alexei Navalny, rendendolo un simbolo di libertà, un moderno santo protettore dei valori democratici, schiacciato a morte dallo zar Vladimir Putin. I media occidentali si sono concentrati, in coro, sulla santificazione di Navalny, riscrivendone la biografia, oscurandone il lato oscuro e parlando apertamente di omicidio, con lo scopo di colpire Putin ed emettere un verdetto di colpevolezza, in assenza di prove, nei confronti del presidente russo: una spinta ulteriore verso l’escalation di guerra. È il caso di Repubblica che titola «omicidio di stato», mentre per il Giornale, Putin con l’assassinio di Navalny avrebbe voluto mandare un messaggio chiaro a tutti i dissidenti. Se Gramellini parte all’attacco di tutti coloro che possono dubitare della propaganda mainstream sulla vicenda, dalle stesse colonne de Il Corriere, si ammette che la morte dell’oppositore «sia un bel grattacapo per Putin che contava su una riconferma noiosa (senza avversari veri), ma tranquilla» alle elezioni presidenziali.
A beneficiare della morte di Navalny, infatti, non è certo il Cremlino, sebbene, a essere obiettivi, il tema è a dir poco spinoso e la responsabilità della sorte di Navalny, in attesa di prove, può essere comunque riconducibile al regime russo e alle condizioni di prigionia in cui versava il dissidente nel carcere siberiano di Kharp, nella Siberia del Nord. A complicare le cose ci si mette Bild che rivela che sarebbe morto «forse poco prima di una sua possibile liberazione», nell’ambito di uno scambio di detenuti tra USA, Russia e Germania.
Mentre la stampa allineata acclama Navalny come un martire, descrivendolo erroneamente come “il leader dell’opposizione” e il nemico numero uno di Putin (che non era), gli stessi media mainstream evitano accuratamente di riportarne le origini e la formazione, ignorando in maniera selettiva le sue storiche inclinazioni nazionaliste, i legami con gruppi neonazisti, i ripetuti commenti xenofobi e le estreme opinioni anti-immigrazione. Finendo per dipingere la sua biografia come quella di un liberale di centrodestra.
Che Navalny sia stato, almeno per una parte cospicua della propria storia politica, un razzista e un suprematista è noto e lo scriveva, del resto, proprio La Stampa in un articolo dal titolo inequivocabile, pubblicato nel 2012: «Il blogger xenofobo che unisce la piazza contro lo zar Putin». Dodici anni fa, il quotidiano torinese si poteva permettere di svelare il «lato oscuro dell’Assange russo», definendo senza mezzi termini Navalny un «blogger-star», xenofoba e di estrema destra. Nell’articolo si descrivevano le sue simpatie nazionaliste e le sue «tendenze giustizialiste», sottolineando che a novembre 2006 Navalny era in prima fila alla Marcia Russa dei “rivoluzionari bianchi”, tra neonazisti e slogan anti-Caucaso.
Chi era Navalny e quali aspetti del suo passato l’amnesia retrograda dei quotidiani sta occultando?
Nato nel 1976 in una cittadina della provincia di Mosca, fin da giovanissimo Alexei Navalny è attivo nell’opposizione russa, finché nel 2008 viene cacciato dal partito Narod (Popolo), che aveva contribuito a fondare, per affermazioni xenofobe, dopo che in un comizio aveva paragonato i caucasici a degli «scarafaggi scuri di pelle» suggerendo di adoperare «le pistole» contro di loro, visto che non sarebbe bastata la paletta per schiacciarli. Non ritrattò mai queste frasi: nel 2017, in un’intervista al The Guardian, aveva ammesso di non avere rimpianti per le sue dichiarazioni passate e giustificò il suo paragone tra migranti e scarafaggi come una «licenza artistica». Nel febbraio 2021 Amnesty International ritirò a Navalny la designazione di “prigioniero di coscienza”, per via delle sue dichiarazioni nazionaliste, ripristinandola a maggio dello stesso anno.
Riconosciuti il carisma e le innegabili qualità di leader, Washington decide di puntare su di lui, “formandolo”, in modo da renderlo più presentabile. È così che Navalny finisce nell’incubatore a stelle e a strisce e diventa un prodotto mediatico. Parte per gli USA, per un periodo di formazione all’Università di Yale, come invitato nell’esclusivo Greenberg World Fellows Program, un programma creato nel 2002 per il quale vengono selezionati ogni anno su scala mondiale appena 16 persone con caratteristiche tali da farne dei “leader globali”.
Dopo la formazione, Navalny torna in Russia profondamente cambiato: niente più comizi nazionalistici e xenofobi, inizia la lotta contro la corruzione, per i diritti umani e contro il potere di Putin. Fonda il movimento Alternativa Democratica, uno dei beneficiari, come confermato da Wikileaks, della National Endowment for Democracy (NED), un’agenzia statunitense fondata nel 1983 con l’obiettivo dichiarato di promuovere la “democrazia” all’estero. In particolare, la NED è stata fortemente attiva in Ucraina, dove ha sostenuto il colpo di Stato di piazza Maidan. La tecnica, ormai consolidata, è quella delle “rivoluzioni colorate” per fomentare una ribellione anti-governativa, in modo da indebolire lo Stato dall’interno, mentre dall’esterno cresce su di esso la pressione militare, politica ed economica. Il progetto degli aiuti internazionali in questa forma risale, infatti, all’ex presidente americano Ronald Reagan: grazie alla costituzione di una rete di associazioni non governative, il governo americano controlla attivamente dal 1981 la politica estera, senza dovere più ricorrere ai fondi neri della CIA.
Non sono nemmeno un mistero i rapporti di Navalny con i servizi segreti occidentali: in un video del 2012, ripreso dagli agenti russi del controspionaggio, Vladimir Ashurkov, il braccio destro dell’attivista, incontra in un ristorante di Mosca William Thomas Ford, agente dell’MI6 inglese, chiedendo apertamente finanziamenti per la sua campagna politica, impegnandosi a stabilire contatti con gli oligarchi al fine di rassicurarli sulla preservazione dei loro privilegi.
Da evidenziare, anche, come i media mainstream abbiano accuratamente evitato di ricordare le condanne di Navalny per frode e appropriazione indebita, facendo passare l’idea che sia stato arrestato esclusivamente per motivi “politici”. L’attivista era stato giudicato colpevole di appropriazione indebita nel 2014 su denuncia della casa di cosmetici francese, la Yves Rocher, di cui era il referente russo. Già allora La Repubblica evocava l’esistenza di una «trama oscura», una «trappola del regime per neutralizzare un oppositore politico». All’arresto per frode seguì un lungo tira e molla di arresti domiciliari, un sospetto avvelenamento, violazioni degli arresti e di nuovo la prigione per queste violazioni. Sebbene non sia da escludere che le accuse siano state amplificate o strumentalizzate, è curioso notare come i media occidentali abbraccino, in maniera ipocrita, la pista dei complotti a corrente alternata, proponendo, nel caso di Navalny una rappresentazione unilaterale e tutt’altro che realistica.
Navalny non è mai stato un pericolo concreto per Mosca, semmai una pedina di giochi legati alla sua immagine, succube dell’ingerenza occidentale. A dimostrarlo il fatto che in patria godesse di una fama residuale a confronto di quella che gli hanno riservato i media occidentali. Insomma, più che l’eroe ai limiti della santificazione, un istrionico genio della comunicazione, che per anni ha lavorato per gli oligarchi russi, strizzando un occhio all’Occidente, senza mai sconfessare le sue posizioni di estrema destra.
di Enrica Perucchietti per L’Indipendente