In Italia le riforme legislative mancate sono tantissime e alcune, col passare del tempo, vengono dimenticate. La riforma della diffamazione a mezzo stampa appartiene a questa categoria. In alcuni momenti questa riforma è stata considerata necessaria, irrinunciabile, urgente, indifferibile, ma poi non è stata approvata ed è tornata nel cassetto in attesa di un altro lampo di attenzione che prima o poi arriva, perché, inevitabilmente, le riforme mancate tornano sempre alla ribalta. Tutte. I problemi irrisolti si vendicano. Creano nuovi casi insolubili dalle leggi vigenti. Perché le leggi non si fanno una volta per tutte. Col tempo invecchiano, risultano inadeguate o contraddittorie, il mondo cambia ed emergono vuoti legislativi contro i quali non vale neppure la tanto celebrata arte italica di arrangiarsi.
Della necessità di aggiornare le norme sulla diffamazione si discute ormai da decenni, perché da decenni rivelano limiti e contraddizioni e producono vittime, sia fra chi non riesce a ristabilire la propria reputazione violata, sia fra gli operatori dell’informazione che subiscono penalizzazioni ingiuste per aver svolto una attività di pubblico interesse. Le pecche emergono tutti i giorni.
Ma purtroppo si discute della necessità di cambiare la normativa solo quando accade che le pecche producano un fatto clamoroso, ad esempio quando finisce in carcere per diffamazione un giornalista famoso e allora perfino le istituzioni europee o le Nazioni Unite alzano la voce paragonando l’Italia alla Turchia che non riesce a entrare in Europa o, più recentemente, alla Bielorussia autoritaria di Lukashenko. Sotto queste spinte si rispolverano idee e si ripresentano proposte di riforma.
Accadde la prima volta sessant’anni fa, quando finì in galera lo scrittore Giovannino Guareschi querelato dal premier Alcide De Gasperi. Successivamente è accaduto tantissime altre volte, quando altri giornalisti hanno vissuto disavventure analoghe. Gli ultimi casi che hanno fatto rumore e hanno rimesso in pista l’idea della riforma sono quelli di Lino Iannuzzi e di Alessandro Sallusti, condannati a pene detentive. Il problema è vecchissimo.
Di fronte all’inadempienza del Parlamento a fronte di un vuoto legislativo evidente, trent’anni fa la Corte di cassazione intervenne con una sentenza che ha fatto storia ed è ricordata come il decalogo, perché detta dieci regole da rispettare per non incorrere nel reato di diffamazione. Quella sentenza ha tappato alcuni buchi della legislazione, ha risolto alcuni dubbi, ma non ha risolto tutti i problemi, e ne ha creato di nuovi.
Una sentenza non poteva fare di più. Alla magistratura spetta interpretare e applicare la legge. Spetta al Parlamento regolare la materia mettendo in equilibrio i vari diritti in gioco. Subito dopo quella sentenza ‘decalogo’ fu chiaro che un intervento del Parlamento era necessario. Ma finora quell’intervento non c’è stato, e sono passati trent’anni. La natura del problema è chiarissima: la legge sulla stampa risale a sessantasei anni fa e ogni anno che passa mostra nuovi, innegabili ed evidenti limiti e difetti. Bisogna aggiornarla in modo serio e approfondito, non si può semplicemente rappezzarla. Lo stesso impianto è superato, contraddice importanti principi della giurisprudenza europea, consente facili abusi del diritto di querela a scopo intimidatorio nei confronti dei giornalisti sgraditi che, di solito, sono quelli che pubblicano le notizie più importanti e incisive.
Nel Terzo Millennio, un paese democratico deve garantire pienamente il diritto dei cittadini di tutelare la propria reputazione personale, ma non può farlo limitando gravemente la libertà di espressione, la libertà di stampa, il diritto dei cittadini di essere informati, libertà e diritti umani fondamentali che meriterebbero la stessa piena tutela. Questa riforma non può più attendere perché le norme vigenti riducono sempre più lo spazio in cui si esercita la libertà di espressione e di cronaca senza rischiare gravi sanzioni. Questa riforma serve a riconoscere il ruolo e la funzione pubblica dei giornalisti e dell’informazione, ma serve anche ai cittadini, a consentire a ogni cittadino di partecipare consapevolmente alla vita pubblica dicendo liberamente ciò che pensa e venendo a conoscenza di tutti i fatti rilevanti di pubblico interesse. Perciò tutti dovrebbero sollecitare questa riforma e impegnarsi affinché sia realizzata, riconoscendo che è una battaglia di civiltà. Invece sembra che questa riforma non interessi nessuno. Forse perché nessuno finora ci ha messo la faccia e ha spiegato con parole semplici a cosa serve veramente questa benedetta riforma. Proviamo a dirlo noi, in questo opuscolo, spiegando che la legge che punisce la diffamazione è come il rubinetto della libertà di parola: regola la quantità di informazione libera consentita in un paese.
In Italia, nel lontano 1948, quel rubinetto fu regolato al minimo e lo è rimasto in tutti questi anni. Lo sanno bene i tantissimi giornalisti, opinionisti, scrittori, attori, autori di satira e semplici cittadini che hanno subito sanzioni per il semplice fatto di aver espresso critiche, per aver criticato qualcuno, semplicemente per aver reso di pubblico dominio informazioni vere e di pubblico interesse, per comportamenti che in altri paesi democratici sono tollerati, accettati e perfino elogiati. Gli esempi si sprecano. Le cronache allungano continuamente la lista. Ecco perché gli osservatori internazionali rivolgono tante sollecitazioni e richiami alle autorità italiane affinché adottino una normativa più giusta e rispettosa degli standard europei e occidentali, in altre parole, affinché aprano quel rubinetto arrugginito.
Questi richiami piovono da molti anni sull’Italia e rimangono senza risposta: quel rubinetto rimane chiuso o semi-chiuso. Evidentemente il giornalismo di cronaca e di inchiesta, le opinioni critiche, la satira corrosiva, le inchieste che aprono gli occhi sulle storture del potere fanno paura al mondo politico italiano, che sogna e incoraggia un giornalismo docile e addomesticato. In questo paese in cui il giornalismo non addomesticato ha fatto scoprire grandi scandali prima aprendo la strada a inchieste giudiziarie e condanne che hanno rovinato carriere politiche e imprenditoriali, c’è sempre qualcuno che dice: però i giornali esagerano, in Italia c’è troppa libertà di stampa, occorrono norme più severe.
Gli imprenditori corrotti, gli amministratori pubblici che querelano senza fondate ragioni e usano i soldi pubblici per finanziare i media amici e punire quelli ostili, sognano un giornalismo sottomesso, che chiede permesso prima di pubblicare qualsiasi notizia, perfino per diffondere il testo di una delibera. Sognano di punire i giornalisti disobbedienti privandoli del loro lavoro e dei loro averi. Perciò difendono strenuamente la legislazione vigente sulla diffamazione che in parte permette tutto ciò. Si è visto anche in Parlamento, quando la riforma e tornata in pista e ci sono stati interventi per limitarne la portata. Bisogna metterlo nel conto. È inevitabile che qualcuno si lamenti, che non voglia rinunciare a guarentigie antistoriche che bloccano opinioni critiche e informazioni sgradite. È scontato che qualcuno faccia leva strumentalmente su episodi e casi particolari per resistere o cercare di chiudere un altro poco quel rubinetto.
Il Parlamento dunque ascolti tutti i pareri e tutte le obiezioni, guardi come è regolata questa materia in Europa e disegni una buona riforma, tenendo presente il problema principale: occorre riequilibrare la bilancia dei diritti.
Perciò occorre garantire più pienamente il diritto del cittadino di difendere e ripristinare la propria reputazione quando essa viene offesa, ma uscendo dalla logica cavalleresca del duello, della contesa da cui non esce vincitore chi sta dalla parte della ragione ma chi è più abile.
Inoltre occorre riconoscere apertamente il valore pubblico dell’informazione giornalistica e varare, finalmente, norme idonee a tutelare e proteggere attivamente il diritto di espressione e di cronaca, prevedendo sanzioni per chi lo insidia e lo ostacola. Bisogna farlo per tutte le buone ragioni esposte in questo opuscolo.
di Alberto Spampinato (Ossigeno per l’Informazione)