Arriva accompagnata dalla foto di una stretta di mano fra il presidente Volodymyr Zelensky e il generale Valery Zaluzhny la notizia del cambio al vertice delle forze armate ucraine di cui si parlava da giorni, che è il tentativo estremo del leader ucraino di correggere il tiro a due anni ormai dall’inizio dell’invasione russa e cambiare le sorti di un conflitto che per sua stessa ammissione è in una fase di inesorabile “stallo”.
La decisione di mettere alla porta Zaluzhny è il più esplicito riconoscimento del fallimento della controffensiva lanciata da Kiev nella primavera scorsa, i cui obiettivi non si sono mai concretizzati.
Paga questo Zaluzhny, il generale che da segretissimi rifugi ha guidato l’esercito ucraino nella resistenza a Mosca, nella risposta all’aggressione voluta da Putin il 24 febbraio 2022 e nella strategia che ha consentito in un primo momento di fare muro e fronteggiare – fino a fermare e in alcuni casi a respingere – il potente esercito russo. Ma non è più così da troppo tempo. Per questo serve “un piano d’azione realistico e dettagliato per il 2024”, ha spiegato Zelensky motivando la sua scelta in un videomessaggio, un piano che “tenga conto della situazione reale sul campo di battaglia attuale e delle prospettive”, ha detto.
Come nuovo capo delle forze armate il presidente ucraino ha scelto il generale Oleksandr Syrsky, che fino ad ora ha comandato le forze di terra. “Il generale più esperto d’Ucraina”, lo ha definito Zelensky, ricordando che ha condotto la difesa di Kiev all’inizio dell’invasione russa e che ha guidato la controffensiva dell’autunno 2022 nell’est che liberò la regione di Kharkiv. Ed è forse quello l’ultimo successo in ordine di tempo, insieme con la liberazione di Kherson nello stesso periodo, che l’esercito guidato da Zaluzhny – a quel punto figura popolarissima fra militari e civili ucraini – può rivendicare senza alcuna ombra.
Poi l’inverno del 2023 durante il quale le avanzate si misuravano in metri mentre i russi costruivano trincee, salvo il lungo e logorante assedio di Bakhmut, diventato il braccio di ferro simbolo, il Davide contro Golia che si fa strategia militare, ma produce poi terra bruciata e migliaia di perdite. Proprio su Bakhmut sono cominciate ad emergere le prime crepe tra la leadership politica e quella militare, che fino a quel momento erano percepite come agire all’unisono. Crepe diventate sempre più profonde man mano che la tanto anticipata controffensiva non sembrava portare i risultati auspicati.
A fare il resto la ‘fatica’ accusata dall’opinione pubblica straniera e le difficoltà che cominciavano ad emergere nei Paesi partner a mantenere alta l’attenzione e quindi intatto l’impegno promesso a Zelensky in aiuti e armi. Con la crisi in Medio Oriente che assorbe attenzione e risorse, le spaccature europee che vanno facendosi sempre più concrete e le resistenze al Congresso Usa sul nuovo pacchetto di aiuti, la decisione sul fronte militare per Zelensky non era evidentemente più rinviabile.