Il geniale produttore dei Nirvana e di mille altri gruppi (tra cui i nostri Zu e Uzeda) se n’è andato a 61 anni per un infarto.
È stato l’anima degli Shellac e dei Big Black, con cui ha avuto a che fare con Mussolini.
Sfondo tricolore rovinato e Mussolini in divisa da primo ministro: chissà qual è stata la reazione di chi, nel 1985, si è trovato per le mani il singolo Il Duce dei Big Black, band punk rock americana che ha gettato le basi per la nascita dell’industrial rock. Ad ascoltare il testo si rimane ancora più perplessi: “I am Benito and I like my job, They gave me this house and gave me this car, they gave me the cities and streets when they gave me this job”.
Il tutto su una cupa tempesta di chitarre, bassi e drum machine. Una sorta di Bela Lugosi is Dead in versione ridotta e apologetica. La quarta di copertina non aiuta: “This record is dedicated to the memory of the Bambino, Il Duce Benito Mussolini, whose life has been an inspiration to us all”. In realtà, quella dei Big Black non è nostalgia del ventennio – senza contare che si riesce eccome a cogliere la ridicolizzazione di fondo nei confronti di Mussolini –, ma è l’anima più caotica e distruttiva del punk. La provocazione portata all’estremo. Questo atteggiamento di rottura verso i tabù diventerà uno dei tratti caratteristici dei Big Black, con testi che richiamano al razzismo, l’omofobia, pedofilia, omicidi, stupri e quant’altro. Mettere alla prova il pubblico benpensante americano, sbattendogli in faccia il peggio che quella stessa società aveva creato e che nascondeva sotto il tappeto del politicamente corretto per evitare di doverci fare i conti.
https://youtu.be/ABmNjnNR9aM?si=7G58E7Uz2iehnUay