Sono le 18.44 del 2 marzo 1994. Un elicottero Agusta della Guardia di finanza, nome in codice Volpe 132, si alza dall’aeroporto di Cagliari Elmas per un volo di routine lungo la costa Sud della Sardegna. Si dirige verso Ovest, doppia Capo Carbonara e sorvola la Colombina, una motovedetta del corpo. Alle 19.15 Volpe 132 comunica alla base: «Andiamo verso Sud», cioè verso il mare aperto. Da quel momento l’elicottero sparisce dal radar e dalla radio.
A bordo ci sono i piloti Fabrizio Sedda, 28 anni (è lui alla cloche) e Gianfranco Deriu, 41 anni, sposato e con due figli piccoli. Dopo mezz’ora circa scatta l’allarme generale, partono le ricerche. Non si trova nulla. La mattina del 4 marzo un aereo avvista alcuni rottami galleggianti. Un paio di portelloni, un troncone della pala principale, un pezzo di carlinga. E un casco da pilota. È il Volpe 132, non ci sono dubbi. Solo che i resti sono spuntati al largo di Capo Ferrato, circa 40 km più a Nord dell’ultimo avvistamento radar, dalla parte opposta rispetto alla rotta annunciata. Un rebus.
Cos’è successo? La risposta arriverà solo 17 anni dopo, dalla perizia compilata dal professor Donato Firrao, esperto di metallografia del Politecnico di Torino (nel curriculum Ustica e Mottarone), e dal maggiore del Ris dei carabinieri Giovanni Delogu. «C’è stata una esplosione a bordo di modesta entità e non risalente a una carica esplosiva», si legge nella relazione, che Avvenire pubblica per la prima volta. Nessuna bomba, insomma. E nemmeno un missile. Ma allora cosa è scoppiato?
«L’unica cosa che può esplodere sono i vapori del carburante», che è contenuto nei serbatoi sistemati «dietro i sedili dei piloti e sotto i loro piedi». Ma siccome un serbatoio non esplode da solo, «risulta dunque possibile che l’elicottero sia stato colpito da un proiettile, probabilmente tracciante, che ha provocato la detonazione del vapore contenuto nei serbatoi, probabilmente quelli posizionati dietro i sedili dei piloti». Ma c’è anche un’altra ipotesi. A causa di piccole perdite “fisiologiche”, i vapori si depositano anche sul resto del velivolo. E quindi «l’innesco potrebbe essere stato fatto anche da un proiettile normale che, urtando contro le strutture metalliche, potrebbe aver causato scintille».
Ad avvalorare questa teoria, il fatto che i rottami fossero sparsi su un’area ristretta, segno che l’elicottero è esploso sul mare mentre volava a bassa quota, dunque a portata di un’arma comune. Per arrivare a questa conclusione – che nel 2011 porterà la Procura a cambiare l’ipotesi di reato, da disastro aviatorio a omicidio volontario plurimo – ci sono voluti sei anni.
«Non è stato facile – spiega il professor Firrao ad Avvenire –. Ci abbiamo messo un po’ a decifrare i risultati. La svolta è arrivata dai cilindretti di fissaggio dei portelloni, che erano stati spinti a velocità elevatissima contro la cerniera di chiusura. Non poteva esser stato l’impatto con l’acqua, ma solo un’esplosione interna. A quel punto, considerato anche lo scenario ricostruito fino a quel momento, tutte le tessere sono andate a posto».
La perizia conferma scientificamente i racconti di ben 4 testimoni, che videro il Volpe 132 piombare nella rada di Feraxi, per poi esplodere dopo aver sorvolato una misteriosa nave mercantile che da tre giorni incrociava in zona, spegnendo le luci di notte. Una presenza clandestina, in un tratto di mare vicinissimo al poligono inteforze di Salto di Quirra. Intercettata però dal Volpe 132, che si era diretto sull’obiettivo senza avvisare nessuno, anzi fingendo di andare a Sud. E poi, forse sfruttando la “zona d’ombra” tra Capo Carbonara e Capo Ferrato, aveva effettuato un raid a sorpresa, arrivando a bassa quota dall’entroterra. Qualcuno, sorpreso nel bel mezzo di un traffico illecito (armi o droga, si è ipotizzato), potrebbe aver aperto il fuoco dal natante, provocandone l’esplosione e la caduta in mare.
Ma chi potrebbe aver sparato contro un velivolo militare? Il 7 luglio di quell’anno l’intero equipaggio della Lucina, cargo che trasportava grano dalla Sardegna al Nordafrica, viene massacrato nel porto algerino di Djendjen. Spariscono anche 600 chili del carico. I giornalisti Piero Mannironi (scomparso 3 anni fa) e Pier Giorgio Pinna – che fin dall’inizio seguirono il caso del Volpe 132 – mostrano la foto del cargo ai testimoni di Capo Ferrato, che non esitano: è la stessa nave. Solo uno di loro nota «due alberi», che però sul cargo visto da lui non c’erano. Ma per il resto l’identikit corrisponde.
«La nostra ipotesi – dice l’avvocato Carmelino Fenudi, che da 30 anni assiste i familiari dei due piloti scomparsi – è che quella nave fosse coinvolta in affari illeciti. E che forse, quella notte in Algeria, siano stati eliminati dei testimoni scomodi». I parenti dei piloti non hanno mai creduto all’incidente. Furono loro stessi a cercare i primi testimoni, che sulle prime furono sottovalutati dagli investigatori. Mentre le ricerche si svolgevano a Sud, il testimone Giovanni Utzeri chiamò subito i carabinieri per dire «venite qui, è caduto a Feraxi», ma fu preso in considerazione solo due anni dopo.
«La magistratura è stata sempre ostacolata da altri apparati istituzionali – denuncia Pinna –, c’è stato un muro di silenzio attorno a questa vicenda». Con risvolti surreali. Nel maggio ‘94 l’avvocato Fenudi si recò in Procura e fece una amara scoperta: «Non era ancora stato aperto un fascicolo d’inchiesta». Più volte chiusa e riaperta, l’indagine del pm Guido Pani (oggi vice della Dda) è stata archiviata sei anni fa. Ma il reato di omicidio volontario non cade in prescrizione, se spunteranno elementi nuovi la Procura si riattiverà. Per ora, dal 1994 a oggi, gli unici indagati sono stati proprio Sedda e Deriu. La procura militare, con grande solerzia, li accusò immediatamente di “perdita colposa di aeromobile”. Uno sfregio che nessuna medaglia al valore potrà mai cancellare.
Attorno al caso del Volpe 132 si è accumulata negli anni una malsana coltre di misteri, messaggi e depistaggi. Il 26 marzo 1994 viene rubato da un hangar di Oristano un elicottero Agusta, identico a quello caduto. Lo ritroveranno 40 giorni dopo, in seguito a una soffiata, in un capannone di Quartu, vicino a Cagliari, senza la strumentazione di bordo e parzialmente smontato. Il deposito risulterà adibito “a uso governativo” e di proprietà della Wind Air, società con l’indirizzo in una via inesistente.
Un tentativo di inquinare le indagini con pezzi di un altro velivolo? Non si è mai capito. Come non si è mai compreso il senso di quello che disse il controverso ingegner Giorgio Comerio in commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti, il 26 maggio 2015, quando gli chiesero se avesse mai avuto rapporti con i servizi segreti: «Sì, ho avuto rapporti molto soft quando il colonnello Martini di Brescia mi chiamò perché era morto suo figlio, che era della Guardia di finanza ed era precipitato con un elicottero in Sardegna. Mi chiese se potevo localizzare l’elicottero e mi disse che lì con lui c’erano i servizi».
Peccato che Martini abbia sì due figli, ma che all’epoca fossero entrambi bambini. «Ancora oggi – dice Rino Martini ad Avvenire – non mi spiego quel riferimento, totalmente illogico». Martini, ex colonnello della Forestale, ordinò la perquisizione a casa di Comerio nel 1995, nell’ambito dell’indagine della procura di Reggio Calabria sui traffici di rifiuti tossici. «Abbiamo trovato dei riferimenti alla Somalia e a Ilaria Alpi» si sentì dire Martini da Natale De Grazia, il capitano della Marina che morì dopo un malore in Autogrill “per cause tossiche”, mentre andava a La Spezia per raccogliere informazioni cruciali sulle “navi dei veleni”.
L’inchiesta reggina fu archiviata, il pool fu smantellato, Comerio non è mai stato imputato di nulla. Ma il pm Francesco Neri disse in commissione Alpi che tra le carte sequestrate c’era anche una copia del certificato di morte della giornalista Rai, uccisa a Mogadiscio il 20 marzo ‘94, appena 18 giorni dopo la caduta del Volpe 132. Anche lei stava indagando su traffici di armi, droga e rifiuti, molto intensi in quegli anni sulla rotta Italia-Ex Jugoslavia-Somalia.
L’ingegnere negò di avere il certificato, e di quel documento non si trovò mai traccia. Neri riferì che gli era stato sottratto, facendo infuriare il presidente della commissione Carlo Taormina, che lo denunciò per falsa testimonianza. Accusa che poi fu archiviata. Comerio resta una sfinge da interpretare. Perché quando gli contestarono che Martini non aveva figli grandi, lui rispose senza scomporsi che forse si era sbagliato.
Di fatto, però, aveva inserito il Volpe 132 in un contesto preciso e inquietante: «Era l’epoca degli attentati». Con riferimento alle stragi di Firenze, Roma e Milano. «Mi esternò di appartenere ai servizi segreti – rivelò la sua ex compagna ai carabinieri di Reggio Calabria – a seguito di attentati terroristici avvenuti in quel periodo si assentò dicendo che era stato convocato per collaborare alle indagini. Si trattava di attentati avvenuti in Italia nella primavera ’93. Mi pare si trattasse dell’attentato all’Accademia dei Georgofili di Firenze». I carabinieri chiosarono: «Non risulta che il Comerio, in quel periodo, fosse agente dei servizi segreti italiani».
Tratto da L’Avvenire