Uno dei cavalli di battaglia per acquisire consensi, da ormai diversi anni a questa parte, è la Donna.
Che si parli di violenza, di quote rosa, di pari opportunità, il ruolo della donna in questa società fa sempre e comunque presa, crea consensi, crea discussione, sicuramente attira l’attenzione sul tema… quella che non cambia e rimane invariata nel tempo è la situazione della Donna!
Ma come è possibile? Se ne parla tanto e non cambia nulla? Forse se ne parla troppo, o forse se ne parla nel modo sbagliato?
Io sono una donna, sono una figlia, sono una mamma, sono stata una lavoratrice dipendente. Mi sono scontrata con un mondo e un’etica che comunque sia mette da parte o in secondo piano la donna, nonostante le quote rosa e le pari opportunità. Ricordo uno dei miei datori di lavoro, al quale chiesi perché io non potessi fare carriera come i miei colleghi, e la sua risposta gelida, sconcertante, disorientante fu: ‘eh ma tua sei mamma’.
Come diceva la giornalista americana Amy Westervelt, nel suo libro “Dimentica di avere tutto”: “Ci aspettiamo che le donne madri lavorino come se non avessero figli e crescano i loro bambini come se non lavorassero”.
Dobbiamo essere mamme che lavorano, perché dobbiamo dimostrare di non avere nulla meno degli uomini, ma dobbiamo lavorare come se non ci fossero figli da crescere, perché crescere un figlio rimane comunque una prerogativa femminile, così come l’essere madre.
La difficoltà è far conciliare le aspettative che la società ha sulle donne che rivendicano le pari opportunità, e le esigenze che abbiamo noi donne, a cui vengono continuamente relegati ruoli che rimangono solo ed esclusivamente femminili.
La mia idea è che declinare al femminile sostantivi che la lingua italiana ha sempre usato al maschile, sia una cosa ridicola e non da valore alle donne, anzi, esattamente il contrario. Non è sicuramente la grammatica che va sdoganata, ma una cultura che vuole una donna con la gonna – come cantava Roberto Vecchioni – ma che faccia carriera senza pensare di avere una vita privata.
E qui mi sento di dover puntare il dito sulla politica, che sia di destra o di sinistra. Perché in tanti anni non ho ancora assistito a delle vere e proprie riforme che mettano al riparo le donne dalla supremazia maschile. Riforme e leggi che dicano chiaramente che se diventi madre, la tua vita lavorativa prosegue. Se diventi madre, l’azienda ti dà la possibilità di portare tuo figlio al nido aziendale per averlo vicino in caso di bisogno, e non diventa una colpa o una negligenza tenere il telefono vicino per monitorare la situazione. Leggi che riconoscano alle donne il diritto, e ripeto diritto e non ‘favore’, di avere orari ridotti o agevolati, perché mi sono anche sentita dire durante un colloquio di lavoro: devi essere disponibile quando diciamo noi, e noi possiamo avvisarti anche un’ora prima!
E invece cosa abbiamo ottenuto? Il riconoscimento della ‘ paternità’. Anche gli uomini possono andare in congedo parentale, dalla serie: se non ce la fai da sola, ti faccio aiutare! Non voglio essere fraintesa, ben venga il riconoscimento dei diritti del padre, ma devi tutelare le donne lavoratrici, non dargli l’aiutino…
Abbiamo ottenuto la sindaca, l’ingegnera…. Ma non abbiamo ancora ottenuto la riduzione del lavoro femminile precario, salario equiparato a parità di posizione lavorativa, riconoscimento della mole di lavoro maggiore, in quanto i lavori domestici vengono oggettivamente svolti prevalentemente da donne.
In sostanza abbiamo meno tempo da dedicare al lavoro retribuito, meno stabilità, salari inferiori e ancora scarse tutele.
Come si può pensare di controllare la violenza sulle donne se ancora vengono accettate e sopportate certe differenze? E allora si all’inasprimento delle pene per i reati di violenza di genere, ma se non iniziamo un cambiamento culturale che evidenzi il rispetto a 360 gradi, sarà quasi impossibile controllare queste violenze.
Di Lucia Manca