Un cammino giudiziario avviato ufficialmente tre anni fa e che tuttavia da allora ha compiuto pochi passi.
Adesso si intravede la fine.
E forse uno spiraglio per Beniamino Zuncheddu, ex allevatore di 58 anni, da 32 in carcere, condannato in via definitiva all’ergastolo per triplice omicidio. Una strage che risale all’8 gennaio del 1991 quando sulle montagne di Sinnai, in località Cuili is Coccus, furono uccisi tre pastori e una quarta persona rimase gravemente ferita. Da tre anni Zuncheddu, che si è sempre professato innocente, e il suo avvocato Mauro Trogu, del foro di Cagliari, stanno combattendo una battaglia per riottenere la libertà nel processo di revisione in corso davanti ai giudici della Corte d’appello di Roma.
Questa mattina nuova udienza e doppia manifestazione per appoggiare la causa del detenuto sardo. Una a Roma promossa dal partito Radicale, alla quale hanno preso parte anche il sindaco di Burcei – paese di cui Zuncheddu è orginario – Simone Monni, con una trentina di burceresi; la seconda, quasi in contemporanea, proprio a Burcei, dove i partecipanti, riuniti in sit-in, hanno indossato una maglia con la scritta “Beniamino libero”.
L’udienza si è conclusa con un rinvio al 13 ottobre: saranno riascoltati i testi chiave, la persona che scampò alla strage ma anche l’agente di polizia che svolse le indagini e che a detta della difesa del condannato condizionò il teste portandolo a ritrattare la sua versione. Poi si deciderà sull’eventuale sospensione della pena. “Siamo fiduciosi – commenta parlando con l’ANSA Irene Testa del Partito Radicale e Garante dei detenuti per la Sardegna – la prossima udienza sarà cruciale e siamo sicuri che tutto si svolgerà in tempi rapidi: c’è stata una importante accelerazione del caso”.
A far condannare all’ergastolo in via definitiva Beniamino Zuncheddu furono le dichiarazioni dell’unico superstite della strage. Una testimonianza definita dubbia dalla difesa, arrivata dopo presunte pressioni da parte di uno degli agenti che indagava sul triplice omicidio. Il poliziotto avrebbe fatto vedere al testimone, che inizialmente aveva detto di non ricordare il volto dell’assassino perché coperto, una foto di Zuncheddu spingendolo a fornire una dettagliata descrizione dell’omicida che combaciava con quella del pastore. Da qui la condanna.
Il caso venne riaperto grazie alle intercettazioni telefoniche disposte dal procuratore generale per la revisione del processo. A seguito di un interrogatorio, il teste parlò al telefono con la moglie rivelando: “Hanno capito che il poliziotto mi ha fatto vedere la foto prima”.