Data per scontata l’arbitrarietà delle “date di nascita” dei generi musicali, è comunque realistico, e supportato dalle fonti, affermare che l’11 agosto può essere indicato come la data di nascita dell’Hip Hop.
La più grande rivoluzione musicale, culturale e industriale degli ultimi decenni ha dunque cinquant’anni. Contrariamente ad altri generi musicali, in questo caso sono state le istituzioni a sancire l’atto fondante: nel 2021 il Senato Americano non solo ha dichiarato novembre come il mese di celebrazione dell’hip hop, ma ha anche sancito che quella festa organizzata l’11 agosto al 1520 di Sedwick Avenue in un “Block” del West Bronx in cui DJ Kool Herc ha messo i dischi per un centinaio di persone ne è il primo passo ufficiale.
Sul fatto che sia lui il padre fondatore ci sono pochi dubbi: lo riconosce perfino Grandmaster Flash, il suo primo rivale e figura capitale per la nascita di questo genere: si racconta infatti che abbia deciso di dedicare la sua vita ai dischi e ai piatti proprio assistendo a un party guidato da Kool Herc (il nome nasce da un mix tra una marca di sigarette e Hercules). Il laboratorio di questa rivoluzione è stato il Bronx, che negli anni ’70 era una delle zone urbane più pericolose e degradate del mondo, l’immagine simbolo, usatissima dal cinema e dalla serie tv, della metropoli distopica. I due sono arrivati nel Bronx da immigrati: Clive Campbell, Kool Herc, da Kingston, in Giamaica, Joseph Saddler, Grandmaster Flash da Bridgetown, nelle Barbados.
Sono loro due, con le peculiari differenze tecniche e stilistiche, a intuire la potenzialità di un nuovo concetto della riproducibilità tecnica: è il DJ che, grazie alla sua abilità, reinventa la base musicale, scegliendo le parti di un brano (all’inizio pescando soprattutto dal Funk e dal Soul), “i break”, per creare qualcosa di nuovo su cui saranno poi inserite le parti dei rapper. L’alba dell’Hip Hop vede tre giganti creatori dividersi il territorio del Bronx: il West Side a Herc, il South Bronx a Flash, il Bronx River ad Afrika Bambaataa, un figlio del Bronx (si chiama Lance Taylor) che ha avuto un’importanza decisiva nell’evoluzione del genere e che da subito ha dato un connotato sociale alle sue azioni. In realtà la storia insegna che Hip Hop è una cultura che metteva assieme diversi elementi: i graffiti, la break dance, il rap e, per l’appunto, i DJ (si dice il DJing). Il Bronx non era soltanto il terreno di scontro di gang feroci: era anche un crogiolo di etnie che si mescolavano tra loro utilizzando la strada come teatro. Alle origini ci sono le sfide di poesie improvvisate e quelle tra i combo vocali del Doo Wop e dall’altra l’influenza decisiva della Giamaica, dove già esisteva una forte tradizione di DJ creatori di musica e versi.
Attraverso i graffiti, che coprirono i muri dei palazzi e i vagoni della metropolitana, le nuove generazioni di emarginati, utilizzando le bombolette spray, esprimevano la loro identità sfidando le autorità utilizzando codici segreti che hanno dato il via a quella Street Art che ha avuto in Keith Haring e Basquiat le star riconosciute dal mainstream.
Il cuore pulsante di questo movimento erano i cosiddetti Block Party, serate organizzate nei quartieri, dove i DJ erano gli assoluti protagonisti e dove si consolidarono le regole della break dance, una combinazione di movimenti acrobatici che ha cambiato le regole della danza tanto quanto il rap quelle della musica. Fin da subito questa musica meticcia si rivelò come un formidabile strumento di affermazione identitaria ma soprattutto mise in luce un elemento chiave per la sua diffusione planetaria: la possibilità di fare musica con pochi mezzi senza uscire da casa.
Il primo passo verso l’esplosione commerciale dell’Hip Hop risale al 1978 ed è “Rapper’s Delight” della Sugarhill Gang che sovrappose una rilettura di un testo dei Cold Crush Brothers a una base tratta da “Good Times” degli Chic: 14 minuti di Groove e musica che finendo in classifica sancì di fatto il passaggio del nuovo genere da fenomeno di controcultura a genere mainstream, annunciando che il rap era uscito dai Block Parties ed era lanciato alla conquista del mondo. Una rivoluzione in piena regola sul piano della musica, dell’estetica, dei contenuti, del look che per la prima volta vedeva la cultura black diventare dominante con un’aggressività e un’attitudine molto poco borghesi.
Come sempre, industria e benpensanti in principio hanno reagito tentando di reprimere e censurare. Ma quell’universo musicale aveva una forza segreta e incoercibile: era capace di parlare direttamente ai ragazzi di tutto il mondo che scoprirono un codice che oggi è un esperanto musicale. Il messaggio è che tutti, anche i più emarginati, a casa hanno la possibilità di esprimersi attraverso questi codici perché questa è una musica nata per dare voce proprio a chi la voce non ce l’aveva.
Oggi l’Hip Hop è un’industria miliardaria e dominante e, com’è normale che sia, si è evoluto in mille generi e sottogeneri che vanno dalle cose più commerciali a quelle più sperimentali, ha visto affermarsi un nuovo tipo di divismo e di star imprenditori, ha inevitabilmente contaminato, e a sua volta è stato contaminato da, quasi tutti i generi musicali esistenti.
Un fenomeno unico che ha travalicato i confini musicali per diventare il codice identificativo degli anni a cavallo tra il ‘900 e il presente. Chissà se Clive Campbell, Joseph Saddler o Lance Taylor, che oggi sono venerati maestri ma hanno guadagnato in una vita meno di quanto guadagnano in un mese Jay Z o Dr Dre, in quei giorni nel Bronx degli anni ’70, avevano mai pensato che con i loro esperimenti stavano creando un nuovo impero.