La galleria Intesa-San Paolo di Napoli, ha una collezione privata, valore d’investimento solido, aperta al pubblico: c’è un “San Giacomo” di Simon Vouet, c’è il “Martirio di Sant’Orsola”, di Caravaggio intorno al quale ruota tutto il taglio espositivo, critico e curatoriale del seicento in collezione.
Di come Caravaggio sia diventato un magnete turistico di massa da cartolina, abbiamo già parlato, il suo passaggio a Napoli nella pittura è stato qualcosa di simile al passaggio nel Napoli calcio di Maradona (dal punto di vista monografico, i due hanno molto in comune), come a Capodimonte Caravaggio viene utilizzato, nel nome del suo realismo naturalista, per andare oltre, da Gemito al Liberty, fino a Mario Schifano. Mio padre per il mio matrimonio finito in divorzio, mi regalò due sue grandi opere del 1962, il suo lavoro è direttamente legato a mio padre (con lui ha interagito ed esposto).
Con Mario Schifano e il suo lavoro, sono cresciuto, e non vedo l’ora che il suo lavoro torni da mio padre dopo il mio divorzio isolano. Proprio nel nome dell’essere cresciuto tra i suoi lavori, vi confido che c’è qualcosa nella sua pittura, che trovo sopravvalutato; una pittura gestuale ma non troppo, concettuale ma non troppo, riflessiva ma non troppo, fondata sulla citazione che diventa espressione personale volta a idealizzare il mito di Sé, distante dalla purezza formale del pop statunitense, ma che cita dagli States il filone Astratto gestuale, un manierista citazionista di un linguaggio dell’arte, che proprio negli anni sessanta e settanta, attraverso i media di massa, s’imponeva e proponeva come globalizzato (“”Warholista” si può scrivere?). Riconosco l’intensità dell’artista e il suo vivere con e per l’arte, ma quanta poca esperienza e vissuto personale c’è nel suo lavoro e nel suo linguaggio? C’è uno stile, una cifra che lo rende non mistificabile, per quanto sia riuscito ad autofalsificarsi e a creare una confusione intorno al suo lavoro con Fondazioni che se ne contendono l’originalità, originalità che nessuno riuscirà mai a dirimere con certezza (per me non esiste il falso d’autore,che senso avrebbe il restauro?), il suo lavoro è una permanente citazione.
Tutto questo porta a chiedermi: l’arte può essere solo stile individuale privo di contenuto? Si può fare arte interagendo con quanto è stato fatto, in modalità autoreferenziale, soltanto coltivando il proprio gesto? Lo stile individuale, per fare si che un artista non sia qualcosa di produttivamente comparabile a un impiegato in fabbrica, è un elemento che costituisce l’artista, insieme al linguaggio (in termini contenutistici) e alla tecnica: non sarà che il grande successo iconico, simbolico ed economico di Mario Schifano, sia proprio determinato dalle sue carenze e criticità? Insomma si tratta di un lavoro e di una ricerca che non disturba nessuno, sostanzialmente decorativo, nato assimilato e in simbiosi con in media di massa, se non fosse per la monografia rock di Schifano (che l’assimila a Caravaggio e a Maradona), in che cosa uno dovrebbe leggere la sua forza tra iconico e iconoclastica? Solo nel gesto e nella pittura di getto? Bastava quello negli anni sessanta per vivere d’artista? Sicuramente in camera da letto o su un caminetto, un Mario Schifano oggi, fa la sua bella figura, altro che tanta arte contemporanea che di pittorico e gestuale non ha più nulla (e vivacchia di sterili contenuti sociali, politici e ideologici).
di Mimmo Di Caterino