La cosa incredibile di una realtà come quella Napoletana, è come i linguaggi dell’arte, e la loro messa a sistema sistematica, abbiano determinato una grande rete culturale, dove di quartiere in quartiere è possibile impattare con l’Alta Formazione Artistica che convive con la comunità e il territorio: merito storico di questo va riconosciuto alla Fondazione Morra e Peppe Morra, anche per lo straordinario rapporto che ha intessuto con gli artisti di cui conserva memoria e ricerca, con straordinaria passione e sguardo lungimirante.
A Casa Morra, curata da Eugenio Viola (mica un curatore qualunque, per chi non lo sapesse è stato il curatore del Padiglione Italia della Biennale di Venezia, un unico artista, Gian Maria Tosatti), c’è la straordinaria mostra di Mike Parr, artista che come Nitsch, nella figurazione artistica, sintetizza un processo performatico che fonde arte ed esperienza di vita (approccio all’arte che sento mio, al punto da osservare i suoi autoritratti provando la sensazione che abbia ritratto me).
La mostra s’apre con “Blind painting towards a hole”, pezzo realizzato in site specific, dove per due ore Parr ha dipinto a memoria con gli occhi chiusi, capite cosa voglia dire per un artista concretamente “visualizzare”? Passando per giganti della storia come Duchamp, Cage e Allan Kaprow, la mostra di Parr, che passa come uno dei padri fondatori della performance, ma che come Nitsch, dimostra che la performance sia il pregresso processuale dell’estetizzazione simbolica del prodotto artistico (e quindi non sia null’altro che la vita monografica dell’artista), attraverso video che documentano la sua storia, s’arriva ai suoi autoritratti, come me (e come dovrebbero essere tutti gli artisti figurativi), lui non è solo un performer, è uno scultore e un disegnatore, ossessionato dal suo autoritratto, che arriva anche a dissolvere nel nome della sua identità. Ironico e iconoclastico, in una performance “The Ermetic (Primary vomit)”, ingerisce la tavolozza acrilica di Mondrian per poi vomitarla, opponendosi ai formalismi culturali, le sue performance hanno sempre avuto a che fare con eventi traumatici, nel 1977 ha simulato di tagliarsi il braccio sinistro (che non ha) riempito di fegato tritato.
La cornice espositiva è dialetticamente formidabile, perché ci si congeda dal suo lavoro accompagnati da Nanni Balestrini, Julian Beck, Judith Malina’s e il Living Theatre, chiusura con Joseph Beuys. Nello spazio esterno, un intervento del gruppo “Le nemesiache”, termine coniato dalla Napoletana Lina Mangiacapre (1946-2002), anima guida di un gruppo che connetteva creatività e lotta politica per esplorare l’identità in senso liberatorio e mutevole (approccio che ricorda la mia idea del “Mario pesce a fore”).
Il merito storico di Morra e della sua Fondazione, è quello d’avere alimentato un rapporto dialettico, con il turismo di massa diventato quotidiano, tra Napoli e la sua tradizione, storia e memoria, con uno scenario internazionale a esse affine, pensate a quanto sia distante Cagliari da tutto questo, negli anni settanta a Napoli già operava Morra, Cagliari aveva a malapena il suo nascente pubblico Liceo Artistico, pensate a come lavorano le fondazioni e i collezionisti d’area Cagliaritana, aggiungete a questo l’Alta Formazione Artistica pubblica mai nata a Napoli, e capirete perché a Cagliari e nell’isola si continua a parlare d’artisti sardi e non d’artisti, posso scriverlo che quando sento parlare d’artisti “sardi” (ma anche “napoletani”), sono tentato di mettere mano alla pistola (giocattolo)?
Di Mimmo Di Caterino