La politica locale, comunale, regionale e nazionale, a poco serve dinanzi un sistema economico globalizzato di stampo privato, che l’utilizza come strumento per alimentare un suo insensato indotto, eppure crediamo che esista un politica realmente radicata: nella pratica ci si ritrova a essere amministrati come in un condominio, da piccole intelligenze folli d’orgoglio, che piuttosto che rappresentarci quello che è sotto gli occhi di tutti noi, preferiscono costruire torri di babele che essi stessi determinano alimentando conflitti fondati sul distanziamento sociale (tra ricchi e poveri, di genere identitario, culturale, sessuale o come volete voi).
La confusione di simboli e linguaggi (tutti possiamo dire la nostra sui social e farci un selfie) fondata su modelli matematici funzionali al controllo dell’economia privata, è una follia nel nome della quale la nostra identità digitale è ridotta a essenza algoritmica, nella pratica l’umanità occidentale è un popolo d’esodati pronti a divorarsi culturalmente in un caos ordinato solo dai media di massa.
Gli artisti non sentono più la materia, lavorano in digitale e anche quando si confrontano con le arti maggiori, pensano a quanto sia digitalgenico il pezzo da promuovere su questa o quella piattaforma, producono lavori che non irradiano vibrazioni vitali, si legittimano solo attraverso quotazioni di mercato o sparando prezzi che non hanno motivo d’essere a fronte di tanta miseria culturale.
Il mercato è il vero produttore d’arte contemporanea, sponsorizza artisti dalla coscienza soffocata, ma senza manualità artistica fiorente, come si può determinare un popolo cosciente?
Innovazione tecnologica, PNRR e debito pubblico, sono chiaramente l’agonia del nostro mondo: può essere il mercato a determinare i Maestri?
Maestro non lo è nessuno, o semplicemente lo è solo chi anima dei luoghi, per questo l’arte non può essere globalizzata, gli artisti vanno armonizzati e integrati nei luoghi che abitano, i luoghi dell’arte sono i luoghi degli artisti, questo determina l’eternità del linguaggio dell’arte.
L’alta formazione artistica è da intendersi come una casa donata temporaneamente a Maestri che sanno sempre d’essere studenti, questa è la permanente resurrezione dell’arte, l’alta formazione artistica ha senso quando ha affinità naturale con i suoi luoghi di formazione.
L’arte è il gesto giusto, al momento giusto e nell’ambiente giusto, non c’entrano nulla tempo e spazio, è solo una questione di luogo imparentato armonicamente con altri luoghi.
Il gesto magico dell’arte è virtuale, se però esistono le condizioni per materializzarsi, diventa effettivo: la natura dell’ambiente determina la semenza.
Tutto nell’universo è collegato da un unico anelito di vita, per questo l’alta formazione artistica è un tempio che serve a tutti per esprimere il medesimo pensiero: un tempio dove si studia il simbolo, che guida nella comprensione per analogie i legami tra diversi fenomeni, spezzando il circolo vizioso che limita e controlla, impedendo lo sviluppo di stati più elevati di coscienza.
Detto questo, possibile che a Cagliari, ancora si coltivi un sentimento anti napoletano, nel nome di uno spareggio datato 1997 tenutosi a Napoli tra Cagliari e Piacenza?
I Cagliaritani che invece che riconoscere l’impresa sportiva del Napoli, in questi giorni ricordano la data di quello spareggio 15-6-97.
Perché con la stessa determinazione, nel nome di una sportiva rivalità e di un’Alta Formazione Artistica, che a Napoli nacque per Reale stampo borbonico, e dell’avere subito storicamente gli Aragonesi che depredarono tutto, non chiedono Alta Formazione Artistica per l’unica città metropolitana, e capoluogo di Regione, nell’intero Occidente, priva d’Alta Formazione Artistica, con tutta l’emigrazione giovanile (senza rientro) che questo comporta?
Non sarà che l’Alta Formazione Artistica a Cagliari non è mai stata nel nome del “Noi non siamo Napoletani”?
I simboli (anche quelli sportivi), uniscono e non dividono, l’educazione all’arte serve a questo, quanto è diabolico coltivare e radicare nella memoria identitaria, uno spareggio calcistico (che neanche vedeva coinvolti direttamente i tifosi Napoletani), per squalificare culture e imprese d’autodeterminazione altrui?