“Ho difeso i confini italiani, rifarei tutto quello che ho fatto”. È la linea che il vicepremier e ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, ha sempre tenuto durante gli oltre 36 mesi del processo Open Arms che domani dovrebbe concludersi con la sentenza.
L’accusa ha chiesto la condanna a sei anni per sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio. Appuntamento nell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo, dove il presidente della seconda sezione penale di Palermo, Roberto Murgia, al termine della camera di consiglio, leggerà il dispositivo della sentenza che metterà una prima pietra sulla vicenda risalente all’agosto del 2019.
In quei giorni il governo Conte 1, nato dall’alleanza tra Movimento 5 stelle e Lega, è agli sgoccioli e i rapporti tra Salvini e il premier sono ai minimi storici. La Open Arms, con a bordo 164 migranti, chiede un porto sicuro a Italia e Malta.
Salvini, alla guida del ministero dell’Interno, dà seguito alla linea dura condivisa anche dagli altri componenti del governo sul fronte dell’immigrazione, negando alla nave l’ingresso nelle acque territoriali italiane. Nasce in quel momento il braccio di ferro con la ong che alla fine porta al processo di Palermo.
Il provvedimento viene sospeso dal Tar del Lazio, che accoglie il ricorso degli avvocati di Open Arms. Per venti giorni la nave rimane ferma davanti all’isola di Lampedusa.
Nel frattempo il tribunale di Palermo ordina lo sbarco dei minori ma la situazione a bordo degenera. Le immagini dei migranti che si gettano in acqua per potere raggiungere la riva a nuoto fanno il giro del mondo ed è qui che entra in scena il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio. Il magistrato sale a bordo della Open Arms per rendersi conto della situazione. All’uscita parlerà di “situazione esplosiva”, sequestrando la nave. È la mossa che sblocca la situazione ma che innesca anche il caso politico-giudiziario con l’iscrizione di Salvini nel registro degli indagati.
A quel punto la palla passa, per competenza, a Palermo, che è sede del tribunale dei ministri ma per l’autorizzazione a procedere serve il via libera del Senato. I magistrati mandano gli atti a Palazzo Madama che concede l’autorizzazione a procedere e così, il 17 aprile 2021, il gup Lorenzo Jannelli dispone il rinvio a giudizio del leader leghista.
In tre anni, al processo di Palermo, la sfilata di tutti i protagonisti di quella vicenda: dall’allora capo di gabinetto di Salvini, Matteo Piantedosi (oggi alla guida del Viminale), a Giuseppe Conte e gli allora ministri Luigi Di Maio, Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli.
Gli esponenti del Movimento cinque stelle hanno preso le distanze dalle azioni dell’allora ministro dell’Interno, incastonando le mosse di Salvini nello scenario politico agitato degli ultimi giorni del governo Conte 1.
La Lega, oggi come allora, fa quadrato attorno al suo leader che domani sarà nell’aula bunker del Pagliarelli accanto alla legale Giulia Bongiorno.
“Confido molto nella terzietà dei giudici di Palermo e nel loro giudizio che sarà scevro da qualsiasi condizionamento esogeno della politica e di quella parte che contrasta Salvini per partito preso – spiega alla Dire il capogruppo del Carroccio all’Ars, Salvo Geraci – il processo Open Arms è stato aperto dalla politica contro un leader che in quel momento era al Governo con un partito sopra il 20 per cento dei consensi. In un paese civile un ministro non viene processato per una posizione che è quella del Governo e, nei fatti, rispetta le leggi e difende i confini nazionali”. Geraci quindi esprime “piena solidarietà” al vicepremier e lancia una frecciatina a Conte: “Il primo a gioire per un’auspicata assoluzione dovrebbe essere il presidente del Consiglio di quella stagione. I governi, infatti, agiscono collegialmente e il presidente ne coordina l’azione come prevede la Costituzione – osserva – Salvini ha fatto il suo dovere, mentre l’opposizione lo ha combattuto con la propaganda e la via giudiziaria”.