Lo scorso sabato 28 febbraio è stato semplicemente straordinario. Un compagno con qualche anno di lotta sulle spalle più di me ha raccontato che “era dagli anni Ottanta, dai tempi della prima Intifada, che a Sassari non si vedeva una manifestazione così partecipata sulla Palestina”. Ieri Sassari ha mostrato un altro volto rispetto a quello letargico, passivo e spoliticizzato di sempre. Ieri Sassari ha manifestato il suo animo anticoloniale e antisuprematista.
Dai quartieri ridotti a dormitorio, da un centro storico schiacciato sulle varie emergenze criminalità e degrado, dalle case in subaffitto e dalle strade dove corrono i riders per pochi spiccioli orari, ma anche dalle aule universitarie dove studiano e fanno ricerca, dai supermercati e dai negozi dove vivono la propria condizione precaria e dagli uffici dove fanno tirocinio o lavorano, sono scesi centinaia di giovani e meno giovani, formando una inaspettata e meravigliosa fiumana di gente. Bandiere sarde e palestinesi che sventolavano insieme contro l’occupazione militare della Palestina (e per la fine della pulizia etnica in corso).
Ma anche contro l’occupazione militare che subisce la Sardegna e dei vergognosi accordi che permettono a Israele (fra gli altri) di addestrarsi nella nostra terra e di sperimentare i sistemi d’arma con cui poi vengono annichiliti civili, fra cui moltissime donne e tantissimi bambini. Una marcia giocosa, poetica, colorata, rabbiosa, rigorosa, composta: in una parola dignitosa! Una marea popolare, sardista, internazionale, intersezionale, chiaramente alternativa al colonialismo, al suprematismo occidentale, al conformismo imperante. Un corteo partecipatissimo pieno di giovani di ogni nazionalità, alla faccia di chi si lamenta ogni giorno della loro assenza e che attribuisce loro la responsabilità della loro mancata partecipazione alle robe da parrucconi, paternaliste e preimpostate che stancamente si realizzano in questa città a perpetrare l’eterno ritorno dell’uguale e cioè le solite celebrazioni senz’anima, le noiose omelie istituzionali, le trite e ritrite ripetizioni di un progressismo di facciata attaccato alle anticaglie di Togliatti e Berlinguer e di fatto a difesa dell’ordine coloniale prestabilito. Ieri abbiamo dimostrato che il futuro non sta né in questo passato delle tante sigle della cosiddetta “sinistra”, né nelle metropoli italiane a cui ripetutamente lorsignori si recano in pellegrinaggio per ricevere la benedizione dal “nazionale”, né in qualche carta ritenuta “la più bella del mondo”.
Il futuro sta solo e unicamente nella lotta, nella pratica, nel protagonismo dei subalterni e delle subalterne, nel meticciato che si riscopre “afro-sardo” come ha meravigliosamente gridato in piazza quel campione di chiarezza anticolonialista che è Osman Fatty della Gambia Society. Il futuro è sardista popolare ed è quello stesso futuro che immaginava Gramsci quando parlava di Sardegna come “colonia di sfruttamento” e dei sardi come soggetto rivoluzionario che avrebbero creato la loro “Repubblica Autonoma”, prima che sul suo progetto rivoluzionario mettessero le mani Togliatti e i suoi accoliti, trasformandolo in una sorta di statalismo centralista che sognava la coabitazione con il capitalismo e la borghesia e che in cambio tollerava (e in molti casi veicolava) la colonizzazione della nostra terra. Il futuro è delle sarde e dei sardi e oggi sardi sono anche quei tanti ragazzi e ragazze che ieri hanno preso coraggio e hanno sventolato le bandiere dei quattro mori, insieme a quelle palestinesi e che finalmente hanno preso coraggio.
Ora dobbiamo custodire e proteggere questo tesoro che abbiamo fra le mani, perché è ancora un germoglio fragile che ha bisogno di cura e nutrimento. E dobbiamo stare attenti al veleno che viene sparso da più parti, perché dietro alle sterili polemiche che hanno proceduto la grandiosa manifestazione di ieri non c’è solo frustrazione e impotenza, ma anche il preciso tentativo di passare il sale su tutto quello che non si riesce a controllare. Invece il 28 ottobre, fra le altre cose, ci ha dato un insegnamento chiarissimo che dovremmo tenere sempre presente nel cupo ma anche radioso domani che ci attende: la rivoluzione non è controllabile, non è pianificabile, non è fatta a nostra immagine e somiglianza, non sarà realizzata con la squadra e il righello. Grazie Sassari per quello che ci hai regalato ieri.
E da ieri, quando diciamo Sassari diremo ormai anche Sardigna, Palestina, Senegal, Marocco, Gambia, Mali, Angola e tutti i popoli che si stanno alzando finalmente in piedi per sfidare il colonialismo che esiste da 600 anni (in Sardigna dal 1409, data in cui abbiamo perso l’indipendenza) e che questa generazione è chiamata ad abbattere.
L’Opinione di Cristiano Sabino