Ritorno al futuro sulla ruota di Londra.
Se in Europa continentale c’è chi guarda a destra, l’isola della Brexit sterza stavolta in direzione opposta: verso il centro se non proprio a sinistra, tornando ad affidarsi mani e piedi al Labour – sotto la leadership moderata di sir Keir Starmer – dopo 14 anni di governi e convulsioni Tory. “Io servirò ciascuno di voi, che mi abbiate votato o no. Il Paese ha votato per il cambiamento” ha detto il leader laburista nel suo discorso di vittoria come deputato nel collegio londinese di Holborn e St Pancras, dove è stato con oltre 18.000 suffragi e con oltre 11.000 voti di vantaggio sul secondo candidato.
Si tratta di un suggello sostanziale ai pronostici unanimi d’una campagna elettorale intensa, eppure priva di suspense: sfociata nel voto odierno ma apparsa decisa nei suoi esiti sin dal giorno uno della convocazione a sorpresa a fine maggio delle urne da parte di Sunak, con qualche mese in anticipo sulla scadenza naturale della legislatura. Scommessa kamikaze destinata in effetti a far scoccare solo un po’ prima del tempo l’ora di un risultato scontato, figlio d’un diffuso sentimento di rigetto da fine ciclo del partito di governo più che non della capacità d’attrazione dell’offerta programmatica – prudente quanto vaga – starmeriana. Scenario che si traduce ad ogni buon conto in una svolta generazionale. Nella fine di quasi tre lustri di governi a guida conservatrice segnati da crisi, scossoni, scandali, lacerazioni interne e cambiamenti di leader, fra responsabilità proprie e conseguenze di terremoti internazionali; oltre che dai contraccolpi – almeno per ora largamente negativi – di quella sorta di gioco di prestigio che è stato il referendum del 2016 sul divorzio dall’Ue, sfociato nella Brexit. Una svolta consumata nel nome del ritorno alla normalità, caratteristica per ora dominante del profilo da ex procuratore della corona prestato alla politica del 61enne Starmer; e che gli elettori desiderosi d’un cambiamento vero (oltre lo slogan elettorale indistinto del ‘change’) sperano non significhi normalizzazione.
Ma che certo prefigura una netta cesura rispetto agli istrionismi di un Boris Johnson, il più controverso e divisivo (ma anche simbolicamente significativo) fra i 5 premier della girandola Tory di questi 14 anni. La super maggioranza in Parlamento che i primi dati ad urne chiuse confermano fragorosamente lascia del resto margini di manovra all’uomo incaricato ora di riportare le insegne del laburismo a Downing Street dai tempi di Tony Blair e Gordon Brown. Un uomo emerso politicamente nella corrente intermedia della ‘soft left’, salvo spostarsi passo dopo passo su posizioni sempre più centriste, il quale tuttavia promette di lavorare a un miglioramento più equo delle condizioni di vita della “gente comune” come antidoto alla “minaccia populista”.
Sebbene escludendo di voler cavalcare i contrasti sociali o riaprire ferite come la medesima Brexit, a cui fu a suo tempo contrario, ma che adesso non intende rimettere in causa. Le priorità programmatiche immediate riguarderanno semmai l’avvio accelerato d’iniziative legislative ordinarie su temi ecumenici quali “la stabilità e il rilancio dell’economia”, la sanità, l’edilizia pubblica, la sicurezza e il contrasto (senza piano Ruanda) “dell’immigrazione illegale”. In un contesto, già benedetto dalle prime reazioni rilassate dei mercati e del business, a cui si affianca l’impegno alla continuità sulla trincea dei conflitti internazionali – sostegno senza quartiere all’Ucraina in primis – e alla lealtà a Usa e Nato. Ai Tories toccherà ripartire intanto dal baratro, con un nuovo leader dopo l’addio inevitabile di Sunak. Per provare a riconsolidare almeno il primato indiscusso a destra, minacciato da Farage e dal suo Reform UK; e quello della leadership dell’opposizione parlamentare ai Comuni, avvicinato – in uno scrutinio comunque da incubo, senza precedenti in 190 anni di storia per il partito fondato da Robert Peel nel 1834 – dai redivivi LibDem.