Il 16 gennaio 1969 Jan Palach, studente universitario di 21 anni, si cosparge di liquido infiammabile e si dà fuoco in piazza San Venceslao a Praga.
“Non voglio suicidarmi, mi sono dato fuoco come fanno i buddisti in Vietnam, per protestare contro quel che succede qui, contro la mancanza di libertà di parola, di stampa e di tutto il resto”.
Queste sono le parole che Jan Palach ripete al personale dell’ospedale in cui viene ricoverato. Tre giorni dopo, il 19 gennaio, muore.
Palach nasce l’11 agosto 1948 a Vsetaty, a 40 Km da Praga. Il padre, Joseph, anticomunista e membro del Partito Socialista, gli trasmette la passione per la storia, la letteratura e la coerenza morale. Jan e’ battezzato nella Chiesa evangelica frequentata dalla madre. Dopo il ginnasio si iscrive prima alla facoltà di economia, poi a quella di filosofia dell’Università Re Carlo di Praga. Sostiene la stagione riformista del suo Paese (“La Primavera di Praga” del 1968), partecipa alle speranze e agli entusiasmi della grande maggioranza dei cecoslovacchi e di molti cittadini degli altri paesi del blocco sovietico. In quei mesi interviene agli incontri, alle assemblee e a tutti gli spazi di libertà che si aprono nella società civile.
Ben presto tuttavia la stagione delle riforme viene brutalmente interrotta: il 21 agosto 1968 le truppe del patto di Varsavia invadono la Cecoslovacchia. Viene annullata la libertà di stampa, limitati il diritto di riunione e di sciopero.Tutte le manifestazioni antisovietiche sono duramente represse. Fallisce anche lo sciopero del CASP (Comitato d’azione studenti praghesi) del 18 novembre che non ottiene l’appoggio della maggioranza della popolazione, scoraggiata e impaurita. Di fronte alla drammaticità della situazione, Jan inizia a progettare un’azione dimostrativa dirompente.
A Natale incontra la sua maestra delle elementari le parla della delusione “per il torpore che ha preso la società cecoslovacca e della necessità di ridestarla”. Il 6 gennaio 1969 scrive una lettera al leader studentesco Lubomir Holecek, in cui lancia l’idea di occupare l’edificio della Radio cecoslovacca a Praga tramite un blitz di studenti per invitare i cittadini allo sciopero contro la censura. Dieci giorni dopo, il 16, scrive 4 lettere di addio, firmate “la prima fiaccola”, indirizzate all’Unione scrittori, a Holecek, all’amico Ladislav Zizka. La quarta sarà ritrovata nella sua borsa sui gradini del Museo nazionale in piazza San Venceslao, di fronte al Palazzo Federale, simbolo del potere statale.
“Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l’abolizione della censura e la proibizione di “Zpravy” ( Notiziario delle forze di occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s’infiammerà.”
Nel pomeriggio il tragico epilogo. Prima di morire, nei rari momenti di lucidità, chiede che gli leggano i giornali, per sapere se il governo abbia accettato qualcuna delle sue richieste.
La camera ardente, allestita nella facoltà di filosofia, diviene meta incessante del pellegrinaggio non solo dei praghesi, ma di tutta la nazione. Il 25 gennaio, giorno dei funerali, una marea silenziosa partecipa commossa all’ultimo saluto al giovane con cui ha condiviso il sogno di libertà.