Pur con un chiaro favorito, Cillian Murphy per la sua prova in Oppenheimer di Christopher Nolan, nei panni del padre della bomba atomica, la corsa all’Oscar per l’attore protagonista in realtà non sembra chiusa, vista la presenza di Paul Giamatti, con The Holdovers – Lezioni di vita di Alexander Payne, che ha rilanciato nelle quotazioni il grande attore al quale non è ancora mai andata una statuetta.
A completare la corsa, la performance offerta da Bradley Cooper (anche regista) nei panni di Leonard Bernstein in Maestro; Colman Domingo, il cui talento finalmente è arrivato a un pubblico globale prima in tv con Euphoria e ora grazie al ritratto all’attivista Bayard Rustin in Rustin di George C. Wolfe, e Jeffrey Wright che in una carriera ricca di straordinari personaggi, ottiene la sua prima nomination con la satira del politically correct e il racconto del razzismo latente in American fiction di Cord Jefferson. La notte delle stelle per gli Oscar è il 10 marzo a Los Angeles.
“Caro Cillian, finalmente un’occasione di vederti protagonista”. E’ la frase che Christopher Nolan ha lasciato sul copione di Cillian Murphy, offrendogli il ruolo principale in Oppenheimer. Una chance che il regista sapeva il suo amico, straordinario, versatile e coraggioso interprete irlandese, classe 1976, che aveva già lavorato con lui in Il cavaliere Oscuro, Inception e Dunkirk, avrebbe colto al meglio regalando nei panni dell’inquieto fisico una delle prove più intense degli ultimi anni. Il film domina nelle candidature agli Oscar (13 in tutto) e pone Murphy (già mitico Thomas Shelby nella serie cult Peaky Blinders) in pole position per la statuetta, viste le tante vittorie di stagione dai Golden Globes ai Bafta. Un periodo sotto i riflettori, che l’attore notoriamente timido con i media e antidivo (le sue espressioni diventano spesso meme sui social, ndr), ha cercato di vivere al meglio: “E’ tutto abbastanza nuovo per me ma mi sto abituando” ha detto al New York Times, descrivendo Oppenheimer come un uomo “complesso, contraddittorio, imperfetto, vanitoso e arrogante, ma anche immensamente carismatico e affascinante. È stata una responsabilità enorme interpretarlo. Ma i tipi di ruoli che mi piacciono sono quelli in cui penso che non ho idea di come lo interpreterò”.
Una carriera impeccabile, quella di Paul Giamatti, con all’attivo circa 60 film di tutti i generi, soprattutto da non protagonista (con importanti eccezioni come Sideways o La versione di Barney), diretto dai più grandi registi e, fra le altre, una recente serie tv da mattatore, insieme a Damian Lewis come Billions. E’ il biglietto da visita dell’attore, classe 1967, laureato a Yale, di origine italiane da parte di padre (i bisnonni venivano da Telese, in Campania), finora trascurato dai votanti dell’Academy, visto che quella da protagonista per The Holdovers – Lezioni di vita di Alexander Payne è solo la sua seconda nomination dopo quella da non protagonista per Cinderella Man (2006). Molti critici e cinefili per questo sarebbero felici di vederlo finalmente vincere (ha già conquistato, fra gli altri, il Golden Globe per la commedia o il musical e il Critics Choice Award), grazie alla sua emotiva e empatica interpretazione nei panni di un coriaceo ma generoso professore di collegio del New England a inizio anni ’70. “Non credo che esista un attore che non soffra della sindrome dell’impostore” ha spiegato Giamatti a Variety parlando del suo lavoro – È una storia d’amore che attraversa fasi. A volte non lo sopporti e vuoi andartene, ma poi non puoi vivere senza. È bello amare qualcosa ed essere amati in cambio”.
La realizzazione di un sogno: così Bradley Cooper ha più volte definito l’essere riuscito a realizzare un film su un suo idolo fin da quando era bambino Leonard Bernstein: con Maestro, da regista e protagonista, non firma tanto un biopic quanto il viaggio in alcuni momenti fondamentali, artistici e privati, nella vita del grande direttore d’orchestra, con al centro il legame profondissimo con la moglie Felicia Montealegre e il rapporto con la bisessualità. Una prova immersiva, che ha portato l’attore, regista e produttore (qui alla 12/a nomination in 11 anni comprese le tre per Maestro, con in totale quattro da attore protagonista, 5 da produttore per il miglior film, 2 da sceneggiatore e una da attore non protagonista) a prepararsi al ruolo per sei anni, così da sembrare il più credibile possibile anche come direttore d’orchestra. “Non sentivo di fare un film ma una sorta di rituale – ha spiegato Cooper – Leonard Bernstein è morto nel 1990 ma io sento di conoscerlo”.
Classe 1968, il californiano Colman Domingo, si è costruito in 30 anni di carriera un percorso che ha conquistato la critica e il pubblico più attento tra teatro (ha vinto un Tony Award per il musical The Scottsboro Boys) tv e cinema, da Selma a Ma Rainey’s Black Bottom. Tuttavia è stato probabilmente il plauso per il personaggio di Ali, un tossicodipendente sulla via della disintossicazione nella serie già cult Euphoria, per cui ha vinto un Emmy, a fargli guadagnare la chance di essere star in Rustin di George C. Wolfe. Nel film dà vita a Bayard Rustin, attivista afroamericano per i diritti civili che non ha mai nascosto la sua omosessualità, ed è stato tra i principali fautori della grande marcia di Washington del 1963. Una performance che gli porta la prima nomination all’Oscar. “E’ stato un viaggio lungo e tortuoso – ha detto Domingo a Hollywood Reporter sulla sua carriera, raccontando anche di aver preferito che fosse il marito a seguire l’annuncio delle nomination mentre lui riordinava gli armadi -. Non mi sarei mai aspettato questo tipo di successo. Sapevo di dedicarmi al massimo a quello che facevo. E ovunque andassi in scena, che fosse nei teatri regionali, a Broadway, off Broadway, volevo solo fare un buon lavoro. Quando ho avuto questa opportunità, sapevo di essere pronto”.
Un lunga galleria di straordinari personaggi, è anche quella offerta da Jeffrey Wright, classe 1965, dal suo intenso ritratto del genio Basquiat alla miniserie Angels in America (per cui ha vinto un Emmy e un Golden globe) da Hunger Games alla serie Westworld, passando per l’agente della Cia Felix Leiter in tre film di James Bond o il commissario Gordon in The Batman. Un talento che l’Academy non ha riconosciuto fino ad adesso. C’è voluto un altro potente esempio della sua versatilità nella dramedy sociale American Fiction di Cord Jefferson nella quale si mette alla berlina tanto il politically correct quanto il latente razzismo nella società americana, per portargli la sua prima nomination all’Oscar. Arriva grazie al personaggio di Thelonious Ellison, detto Monk, serio professore e scrittore, che tra vita, invenzione ed arte, arriva finalmente al successo con un romanzo scritto sotto uno pseudonimo in cui mette insieme tutti i luoghi comuni sugli afro americani. “Penso che nella nostra cultura ci siano preconcetti o false rappresentazioni di chi siamo come individui ma che non riguardi solo l’esperienza degli afroamericani il non sentirsi visti– ha spiegato l’attore alla Pbs -. Forse grazie al mio modo di lavorare, sono riuscito a superare alcuni degli ostacoli che mi sono stati posti sulla strada”.