Un tempo l’arte e la cultura erano a disposizione del pubblico, poteva fruirne perché libero era l’accesso.
Parlo della mia formazione nel secolo passato, tutto accessibile, adesso la biglietteria del Castel Nuovo (Maschio Angioino) necessita di prenotazione on line per un primo biglietto, con ulteriore biglietto con visita guidata obbligatoria per accedere in alcune aree, tra cui quella dove è ospite (di recente acquisizione), la scultura della star del sistema dell’arte italiano nel mondo, Francesco Vezzoli.
L’intervento di Francesco Vezzoli, è stato intermediato e curato da Vincenzo Trione, uno che già con “La Venere degli stracci” di Pistoletto, in Piazza Municipio, ha palesato di sapere giocare con gli spazi, utilizzandoli con la complicità degli artisti, per ottimizzare la comunicazione mediatica.
La scultura di Vezzoli è banalissima, non va oltre la legenda del coccodrillo, narrata da Benedetto Croce nel 1919:
Il coccodrillo trasportato dall’Egitto, nei sotterranei del castello, sbranava gli amanti della regina, e i prigionieri rinchiusi.
Vezzoli ha non lavorato sito specific (capite quanto sia necessario il lavoro della fondazione morra in una realtà come Napoli?), ripreso una sua precedente installazione, realizzata per Piazza della signoria a Firenze (ma come?), dove il coccodrillo ha tra le fauci una testa romana del secondo secolo d.C., testa proveniente da Palmira (sito archeologico siriano sistematicamente distrutto e depredato dal terrorismo islamico), l’installazione in Piazza della signoria si chiamava “pietà”, immagino si sia conservata la didascalia, e che la testa del romano impero, sia diventata metaforicamente quella di un’amante della regina.
La questione che mi pongo è perché Trione lavora con gli artisti che intermedia in questa modalità?
Perché ricicla progetti, storie e lavori nati non per lo spazio e la cultura con la quale s’interfacciano?
Certo il genio Vezzoli, viene presentato in maniera leggera, un riciclatore di miti, un esperto del cross over semiotico, ma una certa curatela dell’arte contemporanea, nel nome di un simbolico valore di mercato imposto dal privato al pubblico, dissona con quei privati che creano un legame tra gli artisti e i luoghi dove sono chiamati a intervenire con il loro lavoro.
Intervento tutto sommato deludente, anche in relazione alle file e ai biglietti, a dimensione turista, cui mi sono dovuto sottoporre per fruirne, ma una volta entrato, rivedere Micco Spadaro con il suo piccolo e delizioso “Susanna e i vecchioni”, Giovanni Antonio D’Amato (“I santi Nicola, Domenico e Gennaro”) o la “Crocifissione” di Antonio Stabile non ha prezzo.
L’esposizione sul calcio e l’evoluzione stilistica delle sue divise, mi pare coerente con una città dall’anima popolare, dove è stato abbattuto il muro tra folk e arte elitaria, fuori dal Maschio Angioino, una maglietta del Napoli indosso a un palleggiatore con la parrucca che imita Maradona, vale quanto una scultura di William Kentridge sullo sfondo (“il cavaliere di Toledo” del 2012), mentre s’esibisce e viene filmato.
Ragionavo con Franco Nonnis, artista Cagliaritano vicino alla maggioranza Truzzu a Cagliari, che mi diceva: “anche Cagliari a un certo punto dovrà privatizzare certe sue ricchezze pubbliche in chiave turistica”, chiaramente tutto l’indotto economico di settore (a dimensione consumatore turistico culturale) va in un’unica direzione, peccato che a Cagliari mancano due parametri nodali: non è mai nata pubblica Alta Formazione Artistica, e il lavoro delle fondazioni che s’occupano d’arte contemporanea d’area, non hanno certo il profilo e la caratura internazionale della Fondazione Morra a Napoli.
A Palazzo Venezia a Napoli, m’imbatto nel progetto collettivo FIAF, per chi non lo sapesse, Fiat sta per Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, una mostra installazione, di fatto un’installazione che ingloba una collettiva fotografica, il doppio intervento, installazione e collettiva, ha come filo conduttore “Confini, il finito e l’immenso”:
l’installazione è di Tiziana Mastropasqua e Paolo Caivano, che con fili rossi, tracciano i tanti limiti che nel quotidiano ci vincolano, confinando il nostro immenso, limiti sui quali hanno anche lavorato gli artisti (che la fotografia sia oggi alta formazione artistica, lo sanno anche i morti che giacciono nell’underground tufaceo Napoletano) che hanno prestato il loro lavoro per l’installazione che di fatto contiene un’indagine di posse sul concetto di limite.
Tra i lavori di ricerca più interessanti: Ludovico Brancaccio con “sono io il confine” ha riportato foto del suo album di famiglia, quello che custodiamo tutto, e che costituisce l’origine della nostra identità mnemonica in culturale in dotazione dal secolo passato, consegnata inerme a selfie per i nostri social network; Luigi Montefoschi, con “più di qua che di la” alleggerisce l’idea di confine ponendosi in bilico sfidando la pesantezza della forza di gravità nella sua routine quotidiana; Bruno Stefanile mostra come la natura abbatta i confini con il tempo necessario a farlo; Sabrina Privitera mostra e analizza i confini interiori, che possono essere abbattuti e violati soltanto dall’altro; Marianna Battista ci mostra con foto liriche e poetiche, cosa voglia dire, camminare e trovare equilibrio, muovendosi superando e valicando i confini senza voltarsi, nel territorio dove nascono i sogni.
Che in quel territorio dove nascono i sogni, stia prendendo forma la possibilità dell’Alta Formazione Artistica a Cagliari?
di Mimmo Di Caterino