Mala tempora currunt, dicevano i latini duemila anni fa.
A guardarsi intorno, la situazione non sembra tanto diversa. “Viviamo tempi bui, anzi è proprio notte fonda”, concorda Zucchero, che però sembra aver trovato la sua soluzione. “In questi momenti qua, tendo a esser più solare possibile, a trovare più luce possibile”. Buio e luce, concretezza e leggerezza, gioia e dolore sono un po’ i punti cardine su cui si innesta il suo nuovo tour mondiale, l’Overdose D’Amore World Wild Tour, partito sabato 30 marzo con tre date alla Royal Albert Hall e che tra fine giugno e inizio luglio toccherà anche l’Italia con cinque date negli stadi (Udine, Bologna, Messina, Pescara, Milano).
“Ogni tanto abbiamo bisogno di divertimento”, dice in inglese Sugar durante il live nel tempio vittoriano della musica britannica, strapieno di italiani e non solo. “Abbiamo bisogno di leggerezza”, ripete una volta sceso dal palco. “Non dobbiamo mai prenderci troppo sul serio, dobbiamo divertirci”. Lui, la sua parte la fa con uno spettacolo che sembra essere lo show perfetto. La summa dei suoi quarant’anni e più di musica in oltre due ore e mezzo. Una Zuccherology definitiva, si azzarda a definirla qualcuno, messa a punto in anni di live e di chilometri macinati, tra canzoni pescate nel suo corposo repertorio (“posso scegliere tra almeno 250 brani e cambiare scaletta ogni sera”) che sono diventate dei classici, musicisti di livello da tutto il mondo che scaldano la platea suonando alla vecchia maniera, senza affidarsi troppo a computer e tecnologia. “È il mio modo di vedere e vivere il live: se non c’è la musica suonata mancano i colori, la dinamica e sarebbe tutto molto piatto. Non mi divertirei. Il concerto funziona? E allora perché cambiarlo?”.
Ma c’è un altro fattore che non va sottovalutato nella riuscita dello spettacolo: la voglia che non passa mai di Zucchero di stare tra il suo pubblico. “Vasco dice che vuole morire sul palco? Be’, io lo dico da ben prima di lui e ci sono anche andato molto vicino una volta a Zurigo”, ribatte, e sembra pensarlo davvero, indicando nell’attività live il suo impegno primario per il futuro. “Vista l’età, preferisco ammazzare il mio tempo con i concerti: vedi gente, giri il mondo, sei vivo, ti senti vivo. I dischi mi piacciono e a qualcosa sto lavorando, ma punto sui tour, almeno finché reggo”. E a smettere come hanno annunciato altri colleghi non pensa.
Dice basta anche ai duetti: “Sono stato tra i primi a farli, ora li lascio agli altri. Anche perché molti artisti con cui avrei voluto lavorare non ci sono più. Una su tutte Amy Winehouse”. L’unico duetto che si concede durante lo show di Londra – a parte la presenza della corista Oma Jali dalla voce potente ed emozionante -, è con l’italo-britannico Jack Savoretti sulle note di Senza una donna. “Lui adora il brano e mi ha chiesto se potevamo farlo insieme e di essere ospite alla Royal Albert Hall e ho accettato volentieri. Del resto proprio qui io mi esibii la prima volta nel 1990, grazie a Eric Clapton che mi chiamò ad aprire i suoi concerti. Mi diede una grande chance: da lì partì la mia carriera fuori dall’Italia. Non so se ci saranno altri ospiti durante il tour, ma se potessi scegliere mi piacerebbe avere Mark Knopfler e Cat Stevens”.
E dei giovani artisti cosa pensa? “Mi sembra che oggi sia tutto un po’ annacquato, anche il rock. Tutti troppo attenti al politicamente corretto e nessuno che ci va giù pesante. Battaglie sociali nelle canzoni? Mi sembra più un tirassegno. Anche se qualcuno che scrive bene c’è: mi piacciono Salmo, Marracash, Blanco”. Tra i più giovani, soprattutto della scena rap e trap, si registrano testi violenti e sessisti che la politica, per voce del sottosegretario alla Cultura Gianmarco Mazzi vorrebbe combattere con un protocollo d’intesa: “Non credo che gente come Francesco Guccini, Fabrizio De André o Francesco De Gregori sottoscriverebbero una cosa del genere. Non lo sottoscriverei nemmeno io”, afferma deciso Zucchero.
In quasi 35 anni, sul palco londinese è tornato molte volte (detiene il record di artista italiano non lirico ad esservi esibito più volte). “Da allora sempre stesso hotel e stessa stanza, con una differenza: allora ero messo male e davanti ad una finestra ho pensato al suicidio, oggi invece posso tranquillamente tenere le finestre aperte”, scherza con una nota malinconica nella voce. Rispetto al passato anche altro è cambiato: “Prima andavo volentieri in Russia. Ho iniziato ad andarci nel ’90 con un concerto storico al Cremlino. Ora anche se fossi invitato non ci andrei. Ma neppure da Netanyahu o da Trump”. Rimane lontano, per ragioni diverse, anche dal palco di Sanremo. “Non è che non mi voglia il festival e che non so se ci andrei io. Ha un po’ straccato i coglioni – dice Zucchero lasciandosi andare al dialetto emiliano -. E poi vado in gara a far cosa?”. Del resto, di premi e riconoscimenti a lui interessa poco: “Oro, Incenso e Birra è il secondo album più venduto della storia in Italia, probabilmente è il primo perché non sono state conteggiate alcune ristampe, ma non me ne frega niente, i premi contano quel che contano: sono come le caciotte”.